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Se la ricerca del lavoro si trasforma in pellegrinaggio linguistico

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Questo pezzo è uscito su la RepubblicaRobert-Delaunay800600

All’interno di Mia moglie e io, libro d’esordio di Alessandro Garigliano (LiberAria), una specifica locuzione fa da sintesi dell’intero romanzo. «Vivambulavo distante», constata la voce narrante enfatizzando almeno tre qualità costitutive di uno tra i testi letterari più belli di questi ultimi mesi, un libro col quale prendiamo congedo dal precariato come attualità sociale per leggerlo infine come condizione umana.

Prima di tutto l’immersione del narrato in un tempo verbale iterativo e durativo, l’imperfetto, dentro il quale tutto si astrae. Raccontando la propria vicenda baldanzosa e invereconda – in teoria la ricerca frustrata di un lavoro, in realtà una spericolata peregrinazione linguistica che non desidera approdo – il narratore si comporta come un ragno impazzito che tesse la sua tela solo per imprigionarsi: l’imperfetto è dunque la sostanza linguistica che fa di questo personaggio – al contempo epico e ignobile, immaginifico e inconseguente – il detenuto e il suo carceriere.

In secondo luogo, l’aggettivo distante descrive un divergere dalle cose che non è transitorio ma assoluto. Nel tempo dell’imperfetto, non solo il lavoro ma ogni esperienza che abbiamo considerato nodale si fa inaccessibile, come se un vetro opaco e durissimo separasse tutti i nostri desideri dalla loro meta (così trasformando il desiderio medesimo in trastullo, il tempo in passatempo).

In terzo luogo, nel compenetrare il vivere al deambulare vivambulavo (il conio è di Garigliano) trascende la crasi tra i due termini alludendo, con un’eleganza disperata, a quella forma di vita che sembra essere l’unica possibile. Si vivambula come l’Amleto di Carmelo Bene vivacchia; si vivambula come Lazzarillo e tutti gli altri picari del Siglo de Oro vagabondano: alla giornata, nella reiterazione ipnotica dei fatti, delle esperienze e dei racconti, nella trasformazione dell’andare in andirivieni. Si vivambula in un’avventura – quella del tempo reale, del tempo come conflitto e cambiamento – che nostro malgrado è già avvenuta.

Seguendo il protagonista di Mia moglie e io nella sua esistenza immobile e rocambolesca, eroica e cialtrona, tra una messinscena della morte modello CSI (in questo romanzo la morte è seduzione costante, contemplazione amorosa), il continuo pedinamento casalingo di una moglie pragmatica e loquace fino alla santità e un apprendistato interminabile (come libraio, come manovale, persino come impiegato di un’agenzia interinale) si sorride, si ride, poi ci si ferma sgomenti: perché sotto la corteccia del riso e del sorriso percepiamo la disperazione onnivora che si avverte quando, al cospetto del legno storto dell’umano, ci rendiamo conto che alla nostra inclinazione tragicomica non c’è modo di porre rimedio.


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