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Stromae, un pagliaccio furioso e tenero

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Stromae

di Edoardo Pisani

 

Nell’intervallo fra i due quadri, penso che il suicidio sia un’idea interessante.

M.C. Escher, Conferenza, 1970

È alto, sottile, vestito in modo sgargiante, con tanto di camicia a quadri colorati e papillon giallo: è Stromae. Canta, balla, fa le smorfie, scrive una lettera d’amore a una cantante morta, la diva dai piedi nudi, Cesaria. Si muove sul palco e sembra irreale, intangibile, la silhouette di un fumetto, una sagoma variopinta, con le gambe simili a trampoli e gli occhi verdi e profondi, cattivi o dolcissimi, disperati o robotici, innamorati, struggenti, a seconda della canzone. È un bastardo, è un figlio senza padre, è un malato di cancro, è una diva, è un dandy, è un paranoico, è tutto ciò che canta e racconta, da un pezzo all’altro, e se non lo è lo diventa, lo recita, si ricrea. È camaleontico, è un camaleonte emozionale, esplosivo, un cantore del caos dei sentimenti, dell’odio e dell’amore, capace di scuoterti e turbarti oppure di farti ballare senza riflettere, come muovendosi per te, commuovendoti o insultandoti. È un pagliaccio furioso, Stromae, qualcosa di mai visto, leggero nella profondità e tenero nella disperazione, nel disprezzo, nel cinismo, spietato con se stesso e con gli altri, con chiunque, con voi.

Quando ascolti e osservi Stromae ti chiedi da dove sia spuntato fuori, cosa abbia vissuto e sofferto per diventare ciò che è, ossia per reinventarsi in Stromae, un maestro rovesciato, ribelle e classico al tempo stesso, inclassificabile, autore di pezzi come Papaoutai o Formidable, già unici al primo ascolto ma rilanciati da video inquietanti e geniali, ballabili, toccanti, stilizzati. Te lo chiedi pur sapendo che è una domanda inutile; l’unica risposta possibile, posto che ci sia, sta nelle sue canzoni, nei testi e nelle smorfie sul palco, nei vestiti e nei gesti, nelle pose, in ciò che ascolti e vedi, non in quello che ha vissuto lui. “Recito dei personaggi” spiega Stromae. “Parlo di una madre con un tumore al seno, dei polmoni di un padre, ma è tutto finto, non è autobiografico…” Infatti Stromae è un grande interprete, nel vero senso del termine, talmente grande da darti la sensazione di essere a sua volta interpretato e stravolto dai suoi testi, come posseduto dalla sua stessa voce, dall’ubriaco depresso di Formidable al corridore di Je cours, dalla terribile Quand c’est all’appassionato omaggio a Cesaria Evora, Ave Cesaria, brano con versi sonori e simmetrici, rovesciabili, intraducibili – “Obrigado, tu embrigadas des millions de soldats dans ta patrie
/ Donc garde à vous Cesaria, tu nous as tous quand même bien eus
/ Ah, tout le monde te croyait disparue – mais tu es revenue…”

Stromae usa e distorce le parole, il gergo, i generi, la musica elettronica, il rap, il pop, la trap music, la house, la acid, lo swing, la chanson française, i cori, le percussioni e i tamburi africani e via di seguito, senza mai costringersi in uno stile, ribellandosi alle etichette e imponendo la sua unicità, contorcendosi sul palco alla ricerca di un padre, di un amore, di un fantasma, di una voce. I suoi primi due album, Cheese e Racine Carrée, ventiquattro canzoni in tutto, sono semplicemente inattaccabili, non c’è un solo brano di troppo né un argomento affrontato in modo banale, artefatto, che si tratti della violenza infantile o della malattia, della pace o della guerra, della morte, della passione, della religione, del suicidio, fra giochi di ritmo e di linguaggio, rovesciando sillabe e rime, generi, parole, sentimenti. Stromae è un prestigiatore della profondità. Gli basta un verso, un sussurro, un beat, un gesto sul palco o un sorriso statuario per avvicinarti alla morte a passo di danza, macabramente, ballando con le tragedie, con i fantasmi e con le emozioni.

In un’intervista ha detto che Racine Carrée è stato influenzato da M.C. Escher, e in effetti ogni suo pezzo sembra cercare una profondità in superficie, stilizzandola, come le geometrie impossibili di Escher, corteggiando più dimensioni e improvvisando dei baratri sul piano, sul foglio, disegnando una mano che disegna un’altra mano mentre è a sua volta disegnata, giocando con l’estetica e con la ripetizione, con i riflessi, con le rifrazioni, con l’irreale. I brani di Stromae ricordano gli alligatori di Escher, capaci di arrampicarsi su libri e righelli e portapenne e poi di infilarsi in un foglio, bidimensionalmente, frantumando la percezione della realtà e spiazzando il pubblico, costringendolo fra una dimensione e l’altra; ascoltiamo le canzoni di Racine Carrée e all’inizio balliamo, non pensiamo, saltiamo, sorridiamo, ma poi cogliamo le parole e le geometrie dei suoni, il testo, i beat, pur continuando a danzare, e di colpo la trappola scatta, ecco che abbandoniamo la superficie e sprofondiamo, finalmente, senza smettere di muoverci, e allora balliamo, allora balliamo, allora balliamo, allora balliamo.

Dal successo martellante di Alors on danse, singolo che scuote e scala le classifiche europee e consacra il suo autore fra le popstar (termine che per inciso Stromae odia), Stromae non si è più fermato, esplorando temi e generi e giocando con la propria estetica, con la propria immagine, alimentando il suo personaggio e la sua opera, la sua musica, i suoi videoclip. Lo si è visto ubriaco e misogino per Formidable, sorridente e statuario per Papaoutai, smorfioso e androgino per Tous les mêmes, elegante e tirannico per Ta fête, commosso e grato per Ave Cesaria; e di sicuro ha altro in serbo per il suo pubblico, per noi, in futuro ci stupirà e incanterà di nuovo. Stromae di fatto è un illusionista e un geometra, manipola i sentimenti come delle note su un pianoforte o dei riflessi in un trompe-l’oeuil, e tuttavia è anche un perfezionista ossessivo, maniacale, un artista (altra parola che Stromae odia, ritenendola ridicola) che vive solo per la sua musica, per la sua arte. “Studio e ripasso sempre, come se fossi a scuola” ha detto una volta. “Di notte recito a memoria le parole delle mie canzoni – e se ne sbaglio una, ricomincio daccapo…”

Bisogna quindi immaginarlo sdraiato al buio, Stromae, di notte, da solo, mentre ripete i suoi brani fino allo stremo, come in preda a un demone, prima di addormentarsi, abbracciando tutto lo scibile del sentire umano, dall’amore all’odio, dalla solitudine alla violenza, dal delirio alla malattia, per poi svegliarsi e tornare nel mondo reale, sul palco, di fronte al pubblico urlante, danzante, e venire attraversato, letteralmente attraversato, dai suoi fantasmi e dalle sue notti, dai suoi demoni. Per rendersi conto di quanto sia fruttuoso questo perfezionismo esasperato basta risalire ai suoi esordi, dando un’occhiata al suo primo videoclip, Faut qu’t’arrêtes le rap, risalente al 2005, in cui un Paul Van Haver (questo è infatti il vero nome di Stromae) diciottenne e rappuso fissa la telecamera e fa smorfie da bad boy, come l’infinità di rapper americani e francesi imprigionati in un machismo stereotipato, alla ho-il-cazzo-duro-e-la-puttana-nel-bagagliaio, magari raffrontandolo allo Stromae androgino di Tous les mêmes, che gioca geometricamente con la propria intersessualità artistica, fra occhiolini e smorfie e sculettamenti provocanti, sdoppiandosi e alternandoli a espressioni da duro, da maschio, da cattivo, da “uomo”.

“Un attore privato in sé del femminile non sarà mai un artefice, un artista” sosteneva Carmelo Bene ne La voce di Narciso, e chissà cosa avrebbe pensato Bene di Stromae, di un pezzo estremo e ribelle come Tous les mêmes. I due, Bene e Stromae, sono peraltro in qualche modo accostabili, seppure per opposizione: entrambi interpreti estremi, usano e stravolgono la propria arte, dal teatro elisabettiano alla musica elettronica, dalla letteratura alla chanson française o alla rumba africana, Bene distruggendo se stesso e il teatro che lo contiene e vomitandosi in scena e Stromae nascondendosi e ricreandosi a ogni canzone, sul palco, nei video, metamorficamente, narciso e timido al tempo stesso, mascherandosi dietro la scenografia e il papillon, dietro i colori e le smorfie, dietro la danza e gli applausi. Per travestirsi da donna e sculettare in scena Freddie Mercury ha dovuto aspettare parecchi anni; Stromae invece diventa una diva fin dal secondo album, con un coraggio estetico e un talento unici, dando addito a voci sulla sua supposta bisessualità – i commenti su Internet alle varie versioni di Tous les mêmes sono esemplificativi: “Ma è diventato gay? Prima era normale”, “è un cazzo di genio e noi stiamo a pensare se è gay o trans o chissà che altro”, “ma se ha una ragazza”, “parla di cose di donne sarà trans”, “che testa di cazzo… beh almeno lui o ‘lei’ sarà sicuro di non avercele mai le mestruazioni”, “comunque non è gay ma vuole solo far vedere le differenze fra uomo e donna”, “fucking faggot eliminate this shit with fire”, eccetera eccetera, ogni dieci o venti commenti ci sono due o tre furbetti che si chiedono dove ficchi il cazzo Stromae o che vorrebbero semplicemente ucciderlo, dargli fuoco – un papillon colorato fra le fiamme, che visione!

In ogni caso, rogo o meno, razzismo o meno, omofobia o meno, androginia o meno, è innegabile che i pezzi di Stromae affascinino e facciano discutere, stordendo il pubblico e portando in superficie tabù e tragedie, malattie, ribellioni, manie di persecuzione, solitudini, insonnie, sempre a ritmo di musica, danzando, fra giochi di parole e suoni elettronici, bassi amplificati, cori in sottofondo, sussurri, grida di terrore. Lo ascolti e lo osservi e puoi fare decine e decine di nomi, minori e maggiori, Piaf, Aznavour, Brel, Gainsbourg, il suo mentore Arno, Cesaria Evora, Morrissey, il Buena Vista Social Club, Notorious B.I.G., rapper francesi come Mc Solaar o Booba, Koffi Olomidé, Kanye West, Charles Bizet, i Kraftwerk, Aphex Twin, Boris Vian, l’Albert Camus de L’uomo in rivolta (nel paragrafo sulla stilizzazione, principio comune a tutti i creatori – “Persino la geometria pura cui perviene talvolta la pittura astratta chiede ancora al mondo esterno i suoi colori e i suoi rapporti prospettici…”), e poi Dalí, Warhol, Escher, Ulay, Ensor, Chaplin, i grandi attori del cinema muto; e tuttavia Stromae ti sfuggirà sempre, ovunque, è inafferrabile e unico, è un bambino esagitato, nei filmati e sul palco, nelle parole, nei gesti. “Quanti anni hai?” gli chiedono in un video, mentre ride e gira su una specie di triciclo, all’epoca di Cheese, e lui risponde: “Ho due anni, due anni e mezzo. O forse venticinque, fai tu…” Poi però nelle interviste è sorprendentemente maturo, educato, riflessivo, addirittura saggio, evitando facili pose da maledetto à la Gainsbourg e ringraziando sempre, concedendosi all’interlocutore, che si tratti di parlare del padre morto – freddamente: “Mio padre non c’è mai stato, per me. Se n’è andato subito. Lo avrò visto sì e no una ventina di volte ed è morto durante il genocidio ruandese…” – o di ridere di se stesso, dipingendosi come un maniaco ossessivo, un tipo difficile, introverso, egocentrico, psicopatico.

“Le interviste sono piacevoli, ma hanno una componente di megalomania, come i live” dice Stromae. “La musica è una cosa molto più intima…” E difatti nelle interviste sembra perennemente all’erta, Stromae, controllatissimo, di un garbo spiazzante, mentre nei brani si lascia andare a volte alla violenza verbale o al delirio, diventando un mostro di disperazione, come in Formidable, oppure di odio, come in Avf o in Bâtard – “Soprattutto, mai alzare la voce, bisogna essere calmi / Bisogna essere dolci, bisogna essere calmi / Bisogna stare sul pezzo, bisogna essere branchouille (da brancher, connettere, infilare la spina elettrica – traducibile con “connesso”, cioè trendy, cool, aggiornato) / Per essere ben giudicati ovunque… aaahhhh!”

Fuori dalle canzoni, fra le interviste e gli studi televisivi, Stromae lo è sul serio, calmo e dolce, educato, branchouille, non grida e non piange mai e sorride e annuisce sempre, ringrazia, ride, ascolta, si spiega. È cortese persino con uno dei critici di On n’est pas couchés, trasmissione francese volta perlopiù a demolire e sbeffeggiare gli artisti e le loro opere (così va il mondo, in musica e in letteratura; l’unico modo per mettere a tacere i giornalisti/maestrini/commentatori inaciditi, armati di lapiss rosso ma disarmati di opere e studi propri, è sbattergli in faccia un capolavoro e ringraziarli per l’attenzione, come ha fatto Stromae…). Lo scambio è prezioso: dopo un primo momento di impasse, un lampo di imbarazzo e forse di odio, mentre la supposta esperta, un’opinionista incolore e incolta, firma de Le figaro avversa ai matrimoni gay, balbetta qualcosa a proposito di “freddezza della musica elettronica” e di “scrittura come patologia del controllo” (?), Stromae sorride e la ringrazia comunque, rispondendo con intelligenza e educazione.

Racine Carrée è un capolavoro pop. Il primo ministro belga ne ha regalato una copia a Obama; Samuel L. Jackson e Will.I.Am danzano e ridono sulle note di Papaoutai; milioni e milioni di persone, indipendentemente dal genere e dai gusti sessuali (e dalla lingua), si immedesimano nel ballerino ermafrodita di Tous le mêmes; in Rete c’è chi impara il francese soltanto per decifrare i testi di Stromae; Ta fête è stato l’inno ufficiale della nazionale belga ai mondiali di calcio; Adriano Celentano e Vincent Kompany hanno nominato (invano) Stromae per l’Ice Bucket Challenge, la doccia gelata contro la Sla; il Musée Grévin ne ha fatto una sorridente statua di cera; i suoi singoli raccolgono lodi e premi nel mondo intero, scalando ogni classifica – e nonostante tutto questo, nonostante il successo e la folla, la foule qui s’élance et qui dance une folle farandole cantata da Édith Piaf, Racine Carrée è davvero un capolavoro, un grande disco pop, imprescindibile per chiunque si interessi di musica e di arte, di cultura, di estetica, di emozioni. I biglietti dei suoi concerti vanno a ruba. I più scettici si ricredono, orde di ragazzine europee si innamorano di questo gigante senza età, magrissimo e dolce, disperato e romantico, talvolta atroce, ormai diventato anche una linea di vestiti, Mosaert, con polo multicolori e papillon e calze gialle o blu o rosse o macchiettate, ispirate ancora dai grafismi geometrici di Escher e disegnate dalla sua attuale fidanzata, una stilista, la talentuosa Coralie Barbier.

Insomma, Stromae si è espresso e ha ipnotizzato il mondo, fino a conquistarlo, e il suo esempio è prezioso per chiunque senta la necessità di crearsi un personaggio (nell’arte o nella vita) al fine di esistere davvero, di esprimersi a sua volta, strappando le vesti o gli stracci di ogni io che ci tormenta, a prescindere dal pubblico e dal successo, dalle pose, dalle maschere, dalle finzioni. La conquista di Stromae forse è andata anche oltre le intenzioni del suo interprete, Paul Van Haver, invadendo la sua timidezza e la sua sfera privata, tanto che di recente ha dichiarato di volersi prendere una pausa di tre o quattro anni, per paura di impazzire. “Voglio fare musica, ma anche avere una vita normale” ha detto Stromae. “Certo, mi piace viaggiare e lo farò sempre. Però sono preoccupato per la mia sanità mentale, voglio stare con la mia famiglia. Capisco come si possa diventare completamente pazzi vivendo un successo come il mio, non c’è niente di strano. Ho bisogno di un paio d’anni per prendermi cura di me…”

Ma intanto il personaggio scalpita, è vivo, reale, esplosivo, pericoloso. Non c’è scampo alla finzione. E così Stromae inizia un altro concerto, ancora, in Belgio, in Francia, in Germania, in Italia, a Milano, a Roma, ogni pubblico è un tumulto in festa, le luci saettanti si spengono e si riaccendono e un uomo viene piazzato sul palco, rigido, con gli occhi sgranati nel vuoto, centro focale di ogni suono e di ogni sguardo, di ogni emozione. È lui, finalmente, è Stromae, e i beat si attutiscono e rallentano, tacciono, riprendono in sordina, si sovrappongono alle urla del pubblico, al delirio. Stromae non batte ciglio. La folla sta per scoppiare. C’è una pausa impercettibile, tesa, un vero momento di teatro, dopodiché bastano tre note in successione e il fantoccio, il personaggio, si contorce e prende vita, voce, corpo, tutto – e la danza ricomincia.


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