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Speciale Santarcangelo 13: domande al futuro del teatro

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Concludiamo lo speciale dedicato a Santarcangelo 13 con un pezzo di Lorenzo Donati. Qui tutti i contributi.  (Foto: Ilaria Scarpa.)

di Lorenzo Donati

Santarcangelo · 13 si è chiuso da poco più di una settimana e la sua eco ci accompagnerà lungo il corso del prossimo anno, non solo dal punto di vista teatrale. Forte di una storia quarantennale, la più lunga di tutti i festival della ricerca italiana, Santarcangelo è sempre stato al centro di discussioni e polemiche sulla sua missione, sia guardando dentro al teatro, alle idee che ha scelto negli anni di sostenere, sia pensando al fuori, partendo dalla necessaria relazione con il territorio per arrivare al sistema teatrale. Nonostante sia ancora troppo presto per misurare la reale portata culturale dell’edizione appena trascorsa, ci sentiamo di dire che si sia raggiunto un’apice: nel delineare alcune linee di ricerca, emerse con evidenza; nel prospettare attraversamenti disciplinari non solo teatrali; nel proporre opere come spunti per dibattere le direzioni attuali dell’arte teatrale, mettendosi quindi in discussione. Quelli che seguono sono dunque appunti ancora a caldo, in vista di un ragionare futuro che possa verificarli o smentirli.

Le domande della scena, nella fatica

Dal festival, dicevamo, sono emerse alcune linee di ricerca. Saggiamente, Silvia Bottiroli (direttrice artistica), Rodolfo Sacchettini (condirettore) e Matthieu Goeury (collaboratore alla direzione artistica), anziché individuare una metafora tematica che orientasse tutto il programma, rischiando di cadere nell’arbitrarietà dei gusti, hanno preferito far nascere tensioni osservando da vicino le opere e i percorsi artistici, stimolando delle emersioni. In tempi di estetiche teatrali “deboli”, perché minoritaria è la posizione dalla quale si parla al mondo e precaria la condizione di lavoro di tutti, tale procedere ci sembra portatore di una sana messa in discussione che ormai è rarissimo trovare.

Dunque a Santarcangelo si è parlato molto di coreografia: dalla magnificenza del corpo tecnico e quotidiano di Cristina Rizzo (Il sacro della Primavera. Paura e delirio a Las Vegas) al gesto quasi sportivo di Alessandro Sciarroni (Untitled_I will be there when you die), passando dal “sabotatore” di concetti, di corpi e di teorie Mårten Spångberg, che ha danzato un assolo di fronte al pubblico di Piazza Ganganelli mostrando fraseggi al limite dell’amatoriale, in realtà progettati per minare le gerarchie discorsive della danza (Powered by emotion).

A Santarcangelo si è analizzato uno degli stati cruciali della nostra vita quotidiana, l’essere spettatori. Abbiamo assistito a performer nei bar che raccontavano le loro amicizie su Facebook chiedendo a noi se mantenerle o eliminarle (Eva Geatti in Purge di Brian Lobel), abbiamo seguito una donna in piazza che, al telefono con ogni spettatore (all’orario stabilito occorreva chiamare un numero mobile), rifletteva su solitudine e moltitudine nella performance Agoràphobia di Lotte Van den Berg, interpretata dall’eccezionale Daria Deflorian. Puntellata dalla riflessione fra storia e collettiva e personale di Valters Silis, è stata l’infanzia e il suo imporci uno sguardo senza compromessi il nocciolo del secondo weekend: dal “se fosse” legato al più famoso personaggio teatrale di tutti i tempi (Be Hamlet di Teatro Sotterraneo, recitato da un bambino che immaginava l’infanzia del Bardo) all’utopica classe scolastica di Giallo di Fanny & Alexander, in cui l’attrice-maestra di fronte a noi chiede agli allievi il significato di parole come punizione ed educazione. Gli allievi sono voci bambine registrate in audio, ma siamo anche noi spettatori, sotterraneamente invitati a fuggire da una crescita che tutto normalizza come Pinocchio, ascoltato al festival nella versione radiofonica di Carmelo Bene del 1974 all’interno di un percorso specifico su Radio e infanzia di cui facevano parte anche Giallo e molte altre proposte. Solo accennando ad alcuni nodi del festival si corre il rischio di riempire pagine e pagine, consapevoli di non avere dato che una fugace idea della complessità.

Di cosa parliamo, quando parliamo di festival?

La via della complessità è dunque il centro della questione, per chi scrive, soprattuto in un contesto italiano che, per mancanza di risorse o di idee, ha tramutato quasi tutti i festival teatrali in rassegne, luoghi in cui si affastellano spettacoli cercando un disegno unitario. Nel modello vigente, pur necessario, si corre sempre il rischio di non mettersi in difficoltà, di non creare problemi a chi guarda, ma al contrario di scattare una foto di gruppo di un’area intenta ad autorappresentarsi e a cercare di incontrare nuovi pubblici (nei migliori casi). Invece a Santarcangelo, insieme alle opere teatrali e di danza, hanno trovato spazio proiezioni cinematografiche in piazza, premi dedicati alla nuova scena (Scenario e GD’a), premi che segnalano in varie discipline le figure più vive e più lontane dalle mode (Lo Straniero), concerti di band di ricerca, un osservatorio critico a cui chi scrive ha partecipato e un altissimo numero di incontri di approfondimento, più di quanti non ve ne siano in tutti i festival nell’arco della stagione estiva, da marzo a ottobre. Cosa comporta questa esplosione per chi attraversa un festival? Come spiegare che una polifonia ai limiti della dissonanza può essere un valore positivo?

Probabilmente, con molta semplicità, ricordandoci che stiamo attraversando tempi per nulla ordinati, tempi che non si addicono a rassicuranti incasellamenti, ma che al contrario ci domandano una messa in discussione continua dei nostri punti di riferimento, in una composizione delle diversità alla quale sfuggirà sempre qualcosa. Non è un caso, quindi, che il festival domandasse moltissimo allo spettatore, anche in termini di continuità di visione. Quasi troppo, diremmo, abituati come siamo a consumare il più alto numero di spettacoli in una o due sere, ricavando quindici minuti per un panino fra una performance e l’altra e controllando sul programma personalizzato dall’ufficio stampa che tutto quadri (e se non quadra poco male, l’indomani partiremo alla volta di un altro festival). Santarcangelo · 13 ci domandava altro: una attitudine di attesa e di ascolto che, se presa sul serio, avrebbe permesso di vedere un festival che rispecchia la fatica dei nostri tempi, attraversato da una proposta culturale in cui la molteplicità non è lustrino di addizioni ma domanda in atto, reagente per lambire lo spaesamento che si cerca nell’arte.

Il teatro del futuro?

Leo de Berardinis, attore-maestro scomparso prematuramente e direttore del Festival dal 94 al 97, nel 1995 scriveva: «Il Teatro è veramente lo specchio profondo del tempo, dove l’uomo riflette su se stesso, non per fermarsi sulla fissità della propria forma, ma per scrutarsi, allenarsi, come un danzatore». Con la chiara sensazione che il festival sia davvero riuscito a manifestare quel teatro che cercava Leo (facendo però un festival profondamente diverso da quelli passati), ci si chiede se sia possibile immaginare Santarcangelo come avanposto in grado anche di combatterlo, il tempo presente. Possiamo chiedere che le visioni critiche e teoriche del festival diventino il traino per il teatro del futuro? Sembra infatti che, per una volta, il festival e le sue idee si trovino in una posizione più avanzata rispetto al disegno complessivo che emerge dalle opere. Sembra di vedere, in altre parole, una idea di teatro “del festival” che preme per venire fuori, diventando una mappa in grado di creare il territorio, e non solo habitat per ospitarlo. Un festival dunque come strumento contro la crisi del teatro, e della società, un luogo in cui fare nascere il teatro che si vorrebbe vedere nel futuro. Potrebbe essere questa la scommessa degli anni a venire?

Sarebbe bello potere rivolgere tale domanda non solo alla direzione artistica attuale, che dovrebbe essere messa nelle condizioni di proseguire il suo lavoro nel tempo – direzione che, sia detto per inciso, in un paese per vecchi e in un sistema teatrale di “nominati a vita” è composta interamente da trentenni, caso più unico che raro – sarebbe bello, si diceva, poter rivolgere tale domanda a chi s’interessa della scena italiana nel suo complesso, ad alcuni bravi organizzatori, ai non tanti direttori di altri festival inquieti, e così chiederci insieme quali azioni ci permettano di fare tesoro delle foto di gruppo, per superarle.


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